La narrazione del Made in Italy nella grafica, tra professione e didattica

Jonathan Pierini

La storia della grafica italiana deve ancora essere indagata. Come evidenziato da Maddalena dalla Mura e Carlo Vinti nel saggio A historiography of Italian design, mancano contributi significativi che esulino dalla celebrazione delle individualità, di racconti che diano visibilità a chi da questa storia è stato spesso escluso, come le donne, di trattazioni che considerino design e graphic design in modo integrato e di studi che tengano conto non solo della produzione, ma anche dell’uso e del consumo dei “prodotti” del design grafico1

Tali mancanze sono probabilmente all’origine del fatto che nella storiografia del graphic design in Italia, a differenza di quanto si riscontra per il design di prodotto o della moda – e come emerge anche in ambito promozionale, giornalistico e divulgativo – il Made in Italy sia un concetto meno sfruttato e non pienamente articolato in termini narrativi. A fronte della presenza di diverse costruzioni ideologiche, di cui si parlerà a breve, manca una label capace di inglobare le diverse esperienze in un’unica narrazione, così forte da pacificare istanze eterogenee e posizioni talvolta antitetiche.

Si tende piuttosto a raccontare la storia del graphic design come un susseguirsi di iniziative “eroiche” di singoli progettisti e, più raramente, come il risultato dell’azione di gruppi culturali o movimenti.

Questo contributo si soffermerà su due “grandi narrazioni”, miti fondativi della grafica nostrana che mostrano, all’apparenza, forti elementi di discontinuità, i quali sono destinati ad attenuarsi a fronte di un’indagine più accurata: il primo è quello dei cosiddetti “maestri” della grafica italiana2 , il secondo è quello della grafica di pubblica utilità o di utilità sociale.

Successivamente, si considererà come queste due narrazioni abbiano intercettato l’evoluzione di una scuola del progetto grafico, l’ISIA di Urbino, impattando sulla costruzione dell’identità dell’istituto e, in una certa misura, recependone alcune esperienze. L’obiettivo è quello di suggerire la necessità di osservare criticamente il modo in cui le scuole del progetto si sono raccontate e si raccontano, riconoscendo alle istituzioni formative un ruolo chiave nella costruzione ideologica del progetto in termini nazionali.

La prima narrazione, quella dei maestri, riguarda l’emergere del graphic design come professione codificata in Italia. Un processo che prende avvio dall’esperienza dello Studio Boggeri a Milano nel 1933 e si sovrappone quasi perfettamente all’affermarsi del concetto di Made in Italy nell’ambito del design di prodotto: un arco temporale che va dalla seconda metà del dopoguerra alla fine degli anni Settanta del Novecento. Franco Grignani, Bob Noorda, Massimo Vignelli, sono alcuni tra i nomi più celebri di un periodo che vede tra le sue fila anche progettisti “totali”, impegnati tanto nell’ambito del prodotto quanto in quello della grafica e della comunicazione. La grafica dell’esperienza Olivetti si inserisce pienamente in questa tradizione, seppure con alcune eccezioni di rilievo.3

Con un balzo in avanti, e uno scarto di prospettiva, incontriamo una seconda grande narrazione, quella relativa alla grafica di pubblica utilità che, nelle sue manifestazioni eterogenee può essere compresa in un periodo che va dal 1971 al 1989.4 Le premesse per l’affermarsi di quest’esperienza sono state individuate nel compimento dei processi di autonomia regionale e decentramento amministrativo che giunsero a maturazione tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. In questo scenario la grafica di pubblica utilità venne raccontata come grafica “altra”5 rispetto a quella dedicata alla promozione di beni e servizi, oltre che altra rispetto a una professione che aveva il suo baricentro a Milano e in Lombardia. Una grafica che prendeva le distanze da quella dei maestri, ma che andava a intercettare le esigenze della cosiddetta Terza Italia fondata su emergenti distretti economici che avrebbero fornito nuova linfa alla label di Made in Italy.

Entrambe queste narrazioni vengono spesso ricondotte, nella letteratura come nell’insegnamento, a specificità nazionali. Tuttavia esse, fin da una prima analisi, mostrano elementi contradditori che richiedono di mettere in discussione un simile inquadramento.

La grafica dei maestri, è costellata di progettisti che, sposando l’uso di un linguaggio tipo-grafico moderno, si inseriscono pienamente nella tradizione dello stile internazionale. Come Elena Dellapiana fa notare in Il design e l’invenzione del Made in Italy, per lo Studio Boggeri e ancor più per lo “stile Olivetti” parlare di italianità risulta fuorviante, dal momento che entrambe le realtà impiegarono numerosi progettisti stranieri e fecero dell’internazionalizzazione un tratto distintivo.6

La grafica di pubblica utilità, caratterizzata dalla collaborazione con gli enti locali e territoriali, una sempre maggiore attenzione alle forme di espressione vernacolari, l’integrazione politica dei progettisti, parrebbe avere tutte le caratteristiche per dirsi compiutamente italiana nelle forme e nei modi. Ma anche in questo caso dobbiamo rifuggire un’interpretazione lineare. Infatti, l’unitarietà delle sue manifestazioni, così come la sua caratterizzazione territoriale sono state più volte messe in discussione, indicate come elementi cardine di un processo di auto-costruzione narrativa piuttosto che reali condizioni di esistenza.7

Entrambe queste esperienze, spesso utilizzate per descrivere il contributo italiano al progetto, e poste come miti fondativi del graphic design in Italia, non si lasciano facilmente ricondurre a un canone. Palesi sono le influenze internazionali sia per quanto riguarda i linguaggi grafico-visivi adottati, sia per quel che concerne la visione della professione, la definizione del ruolo e delle funzioni del progettista.

Una figura emblematica per la messa in crisi delle due narrazioni sopra descritte, il cui lavoro dimostra l’impossibilità di una lettura in termini antitetici, è quella di Albe Steiner.

Grafico milanese, rappresentante della ripresa dei caratteri del modernismo tipografico e dello stile internazionale, lavorò per le più importanti aziende italiane e, allo stesso tempo, fu teorico della grafica di utilità sociale, attingendo alle esperienze del suo impegno politico e civile.

La grafica di pubblica utilità di Steiner individuò per i progettisti un altro spazio di intervento, quello della commissione pubblica e implicò un nuovo destinatario: il cittadino inteso come utente anziché come acquirente, secondo un modello già presente in altri paesi europei e in particolare nell’area elvetica.

Qualche anno più tardi, l’esperienza di Steiner venne ripresa dal movimento della grafica di pubblica utilità, il quale ne sottolineò alcune caratteristiche – in particolare il nuovo ruolo del progettista, partecipe dei processi decisionali – e le sviluppò tanto in termini pratici quanto da un punto di vista narrativo, come emerge dai numerosi contributi teorici e pubblicistici del movimento.

Queste due narrazioni intersecano in modi e momenti diversi la storia dell’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino (già CSAG Centro Superiore per le Arti Grafiche). Esse hanno avuto un forte impatto sulla definizione dell’identità della scuola e, in una certa misura, la scuola stessa è stata un laboratorio capace di partecipare alla costruzione del racconto della grafica italiana.

Le ISIA vennero istituite intorno al 1962 dal Governo dietro impulso di Giulio Carlo Argan, per sopperire alla mancanza di istituzioni dedicate alla formazione nell’ambito del design in Italia; un progetto, questo, che nacque dall’esperienza dell’ISIA Monza del 1922, scuola collegata alla Mostra internazionale di arti decorative. In una certa continuità con questa prima esperienza, le ISIA vennero fondate all’inizio degli anni Sessanta sul territorio nazionale, là dove c’erano importanti tradizioni d’arte applicata come quella ceramica a Faenza, e quella del Libro d’arte e di Restauro del Libro a Urbino, con l’obiettivo di proporre uno scarto verso una concezione del progetto in termini industriali. Fu un’intenzione apparentemente tardiva, tuttavia comprensibile, alla luce di uno sviluppo lento dell’industria italiana all’inizio del Novecento e del processo di reindustrializzazione post bellico che giunse a maturazione soltanto con il boom economico.

Nel 1962 Albe Steiner venne incaricato dall’allora direttore di progettare il nuovo corso reinterpretando in chiave industriale e contemporanea il progetto editoriale di tradizione artistica, compiendo così una transizione dal libro d’arte al libro industriale. L’ideale di progettista moderno, intellettuale e tecnico è manifesto nei programmi didattici da lui messi a punto, i quali includevano materie umanistiche, ma mostravano anche grande attenzione al design sistemico e all’uso di tecnologie di cui Steiner stesso sollecitò l’introduzione quali la stampa offset e fotografia assunse sempre maggior peso rispetto alle tecniche di stampa artistica. Steiner a Urbino portò l’approccio moderno dello stile internazionale.

Il progetto per la città di Urbino, realizzato con gli studenti del quarto anno, citato spesso come caso emblematico di grafica di pubblica utilità è del 1968 – Steiner lascerà l’insegnamento presso l’ISIA poco tempo dopo. Il contesto è quello del dibattito architettonico sul restauro dei centri storici animato a Urbino da Giancarlo De Carlo, il quale, proprio in quegli anni, stava lavorando al Piano Regolatore della città. Marchio, logotipo, sistema segnaletico, grafica sui mezzi di trasporto, giornale comunale: il progetto di Steiner si configura come progetto di immagine coordinata tradizionale, seppur destinato a un ente territoriale.

Massimo Dolcini studiò con Steiner e subito dopo il Diploma prese avvio la sua collaborazione con l’amministrazione pesarese. Dopo un primo momento, in cui il suo approccio al progetto della comunicazione per la città mostra chiare influenze steineriane, Dolcini elaborò un linguaggio grafico fortemente illustrato. Si emancipò rapidamente da un’espressività di eco moderna, incorporando interessi e influenze che devono senz’altro molto al suo incontro con Michele Provinciali.8 Grazie al suo lavoro per Pesaro, per comuni, partiti e associazioni, egli diventò uno degli esponenti di rilievo del movimento della grafica di pubblica utilità. Tornò all’ISIA di Urbino come docente negli anni Novanta, in qualità di responsabile del corso di progettazione di immagine coordinata, rimettendo, insieme ad altri grafici che parteciparono al movimento, come Gelsomino d’Ambrosio e Pino Grimaldi, il racconto della grafica di pubblica utilità al centro del progetto formativo.

La grafica dei maestri e quella di pubblica utilità sono le due narrazioni del progetto grafico italiano che hanno contribuito alla definizione dell’identità di ISIA Urbino nel tempo e alla visione dell’istituto rispetto alla disciplina. Nel racconto dell’identità della scuola, che è andato consolidandosi, l’esperienza tutta moderna di Steiner e quella del movimento della pubblica utilità si sono poste in forte continuità, livellando differenze e asperità a favore di un’immagine talvolta troppo lineare per permettere di comprenderne la ricchezza.

Oggi ISIA Urbino si definisce come “una scuola di progettazione grafica e comunicazione visiva. Una scuola con una forte identità che può essere identificata, in sintesi, nella natura laboratoriale, nel legame con le questioni locali e territoriali, nella dimensione politica del progetto, intesa come una forma di attenzione alle sue implicazioni socio-economiche.”

In questa narrazione il design visto quale strumento capace di ordinare e sistematizzare si è unito alla visione del design quale mezzo di indagine rispetto all’identità, strumento per la partecipazione, valorizzazione delle diversità e delle molteplicità.

Le esperienze fondative sono state interpretate, ricucite dando corpo a una serie di pratiche che uniscono approccio sistemico a valorizzazione culturale dei contesti e che contraddistinguono gli attuali curricula. Quanto questo sia il risultato di una piena partecipazione dell’Istituto all’evoluzione della disciplina in Italia, e alla sua costruzione narrativa, e quanto il prodotto di un approccio contemporaneo, risultato del lavoro di una comunità di studenti e docenti internazionali che si relazionano con contesti territoriali sempre più interconnessi e ibridati, è difficile a dirsi.

L’identità dei nostri istituti oggi, ancor più che in passato, è il frutto di connessioni internazionali molteplici su cui insistono le stesse politiche universitarie nazionali ed europee. Allo stesso tempo, diversi governi sembrano mettere in campo azioni strategiche volte a capitalizzare elementi identificativi della propria tradizione nel design interpretandolo come asset strategico sul piano culturale ed economico.

Siamo colti così in una tensione verso direzioni apparentemente opposte: internazionalizzazione e recupero di un’identità nazionale. In quanto luoghi di diffusione della cultura e costruzione di identità, l’impatto sull’elaborazione e diffusione di narrazioni nell’ambito delle discipline del progetto da parte delle scuole non è da sottovalutare. Pertanto, è indispensabile sottoporre a vaglio critico il modo in cui le istituzioni raccontano e si raccontano, nella consapevolezza dei numerosi soggetti e dei poteri che entrano in gioco, culturali ed economici, locali e nazionali, privati e pubblici.

Concludendo possiamo augurarci che il rapporto tra identità delle istituzioni formative e italianità nel design possa essere messo al centro di un’indagine che utilizzi strumenti storici, critici e progettuali: uno studio storico che metta al centro le scuole, intese come un fertile campo di indagine dell’evoluzione del concetto di “italianità” nel design;9 un’indagine critica che permetta di rendere conto delle diverse strategie e pratiche messe in atto nella definizione di percorsi formativi caratterizzanti; esperienze progettuali intese a sperimentare nuove pratiche capaci di coniugare decostruzione ideologica del mito italiano e valorizzazione di specificità contestuali.

→ Notes
  1. M. dalla Mura, C. Vinti, A historiography of Italian design, in Made in Italy, a cura di G. Lees-Maffei, K. Fallan, Bloomsbury USA Academic, 2014.↩︎

  2. Il termine di “maestri” nel design italiano è comunemente usato e abusato. Solo di recente, alla luce di una maggiore consapevolezza rispetto alla necessità di decostruire una visione patriarcale del design, l’utilizzo del termine viene messo in discussione, in particolare in ambito femminista. Vedi Pugliese V., Educare alla diversità: verso un design gender equal https://www.designatlarge.it/design-di-genere/ (17/02/2023).↩︎

  3. In questo contesto si possono individuare esperienze pionieristiche che, non si limitano a recuperare linguaggi contemporanei e internazionali, gettando piuttosto le basi per sviluppi futuri e avanzamenti disciplinari. Vogliamo in particolare menzionare il lavoro di Leo Lionni che, già dagli anni Cinquanta, assunse connotati del tutto innovativi nella visione di un uso strategico del design della comunicazione in ambito aziendale che si estende ben oltre l’idea di corporate image.↩︎

  4. Questo arco temporale è individuato sulla base di due eventi, il seminario tenutosi allo IUAV di Venezia nel 1979 a cura di Gaddo Morpurgo con la partecipazione, tra altri, di Giovanni Anceschi e Massimo Dolcini, e la Biennale della Grafica di Cattolica sul Manifesto di Pubblica Utilità del 1989.↩︎

  5. – Come ricordato da Giovanni Anceschi, si pensò inizialmente di utilizzare il termine “altra grafica”, prendendo in prestito il titolo dell’almanacco Bompiani del 1973 “Altra Grafica” che consisteva in una rassegna di esempi di grafica di protesta provenienti da tutto il mondo. Si optò infine per “grafica di pubblica utilità”.↩︎

  6. A questo proposito si legga E. Dellapiana, Il design e l’invenzione del Made in Italy, Einaudi, Torino, 2022.↩︎

  7. Già Gaddo Morpurgo, nel 1989, denunciava la volontà dei protagonisti di quella stagione di “contarsi per contare”, riscontrando come di quel periodo non rimanessero che singole autorialità. Le implicazioni di questa osservazione sono state ulteriormente approfondite in J. Pierini, Contarsi per contare. La cultura del progetto e la cultura del lavoro nella grafica di pubblica utilità in Italia, in Progetto Grafico n. 33, 2018.↩︎

  8. Per un approfondimento sulla figura di Massimo Dolcini e in particolare per una lettura critica del suo lavoro in relazione alle influenze di Albe Steiner e Michele Provinciali vedi J. Pierini, Steiner e Dolcini. Tra grafica utile e disordine attivo, Corraini, Milano, 2021.↩︎

  9. A questo proposito si legga F. Bulegato, La formazione dei designer nell’Italia del secondo dopoguerra, in Monopolio imperfetto: titoli di studio, professioni, università, a cura di M. T. Guerrini, R. Lupi, M. Malatesta, Centro interuniversitario per la storia delle università italiane, 2016.↩︎